Articolo a cura di Simonmattia Riva, Biersommelier
I serpenti sono [...] i detentori del veleno e quindi l'antitesi degli dèi celesti che detengono l'ambrosia, l'elisir di immortalità. (Alen Danielou)
L'elisir, acqua della vita in grado di prolungare e riempire di senso e felicità l'esistenza, è un'utopia coltivata dall'umanità a tutte le latitudini nel corso dei millenni e, in Occidente, ha spesso intrecciato la sua storia a quella della pietra filosofale, la sostanza catalizzatrice in grado di risanare tutti i guasti della materia.
Numerosi liquori e distillati hanno ispirato, anche in anni recenti, il loro nome all'immortale archetipo. Ma è proprio pensando alla birra e alle sue tecniche produttive che possiamo cogliere anche il legame con la pietra filosofale che, in ambito brassicolo, è rappresentata dal lievito. L'homunculus del birraio, il suo aiutante semidivino, il magico microrganismo che, se ben nutrito e curato, elabora le materie prime generando complessi giochi di profumi e aromi.
Proprio da un lavoro alchemico di Teo Musso, durato svariati anni e finalizzato alla ricerca di un ceppo di lievito che caratterizzasse in modo inequivocabile le sue birre, è nata nel 2004 Elixir di Baladin. Il genio fermentante, originalissimo quanto difficile da domare, è parente dei lieviti usati nell'isola scozzese di Islay per la produzione dei celebri whisky locali.
Rimossa la ceralacca che marchia le birre più prestigiose e meditative della gamma della casa di Piozzo ed estratto il tradizionale tappo in sughero, il suono che udiamo provenire è un soffio lieve, indice di una presenza moderata di anidride carbonica. Versata correttamente in uno snifter o in un balloon, bicchieri dall'ampio diametro in grado di farne esplodere e veicolare al meglio la complessità aromatica, mostra la sua liquida pelle di color ambrato carico con riflessi che richiamano il rame antico, mentre una leggera velatura è indice dell'assenza di filtrazione.
La schiuma che la corona è di tinta avorio tendente al beige e di grana fine: compatta nell'aspetto e ben aderente al liquido e alle pareti del bicchiere, è curiosamente sonora e crepitante. Inconsueto per una birra è il fitto perlage che risale dal fondo del bicchiere e ricorda uno spumante metodo classico.
L'olfazione rivela un bouquet complesso e cangiante, con sensazioni e sfumature che si avvicendano sempre diverse tra loro lasciando trascorrere i secondi e i minuti: è una birra che si può prestare a una lunga permanenza nel bicchiere, mentre si inscenano accesi dialoghi o fluiscono meditazioni solitarie. La prima impronta aromatica ricorda il dattero e il fico secco, seguita da un tocco lieve di vaniglia e un più consistente carattere maltato che evoca una rustica pasta frolla ben cotta e, con qualche grado in più di temperatura, la calotta del panettone.
Alcuni istanti d'attesa sono propizi per sentirci venire incontro caldi ricordi di miele di bosco, toffee, cioccolato bianco, confettura di cachi, pera passagrassana molto matura e marmellata di mele cotogne. Molteplici profumi evocatori di dolcezza sono però movimentati da pennellate più pungenti di zenzero candito e noce moscata. Un ulteriore riposo nel bicchiere permette al liquido ambrato di sprigionare sentori di pasta di mandorle accompagnati da un ovvio pizzicore etilico e un lontano tocco fumée da té Lapsang Souchong.
Il primo sorso scopre una carbonazione molto sottile e fine e un corpo di buona struttura ma nemmeno troppo consistente considerando l'elevato grado alcolico che deve supportare. Il carattere dolce è intenso, improntato a toni di dattero, fico secco ripieno alle mandorle, mallo di noce matura e caramello biondo, ma meno persistente di quanto ci si sarebbe potuti immaginare.
La pasta frolla avvertita al naso è qui più bruciacchiata, amarognola, mentre una nota più fresca di confettura di fragola e amarena sotto spirito contribuisce a cambiare la direzione gustolfattiva e aprire a sentori di nocciola tostata e mandorla amara che si insediano sull'arcata palatale e guidano verso la costellazione dell'amaro il finale. Esso è piuttosto asciutto e pulito con ricordi terrosi da single malt whisky scozzese e té nero e un ritorno della mandorla nel retrolfatto.
È una birra baudeleriana, che ci accompagna in un bistrot parigino della seconda metà dell'Ottocento, tra impressionisti, poeti maledetti, acerbe o mature ballerine e consumati viveur impegnati in interminabili e ispirate conversazioni alla ricerca di nuove frontiere della percezione.
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