Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, l’Italia aveva una scena birraria piuttosto fiorente: in ogni città importante c’era almeno un birrificio che produceva praticamente ovunque birre di stampo tedesco, tutte molto simili tra loro. Dopo la Seconda Guerra Mondiale le cose cambiarono profondamente: la quasi totalità delle aziende - i cui marchi sono ancora oggi presenti sugli scaffali dei supermercati - vennero acquistate da grandi gruppi industriali che spesso le chiusero o ne cambiarono la natura.
L’industria birraria italiana, escluse poche eccezioni, terminò di esistere e la birra, così come era stato per secoli, tornò a essere un prodotto secondario della nostra produzione agroalimentare.
Tra la fine degli anni Ottanta e la metà dei Novanta, però, la storia ha preso una nuova affascinante piega. Soprattutto al Sud, alcuni pionieri iniziarono ad aprire birrifici indipendenti di piccole dimensioni che avevano lo scopo di soddisfare un mercato locale che chiedeva qualcosa di diverso dalla classica lager industriale.
Si trattò di pochi, isolati esperimenti che non ebbero purtroppo grande fortuna, ma fecero da apripista a quello che avvenne pochi anni dopo, per la precisione nel 1996. In quell’anno, infatti, in Lombardia, Piemonte, Veneto e Lazio aprirono, quasi in contemporanea, diversi birrifici che, pur con percorsi e caratteristiche uniche, avevano in comune il fatto di proporre birre di grande personalità che si ispiravano alle principali scuole birrarie europee, in particolare a quella tedesca e belga.
Tra questi c’era anche il birrificio Baladin che fu certamente uno di quelli che più di tutti indicò la via ai tanti birrifici che sarebbero arrivati negli anni successivi. Le nuove birre, a differenza di quelle che fino a quel momento potevano essere trovate sul mercato, erano ricche di sapori e aromi, di tantissime sfumature diverse, con nomi curiosi e affascinanti. Si trattò di una novità così dirompente che nel giro di una decina di anni i birrifici artigianali - questa è la formula con la quale tra di loro questi nuovi produttori scelsero di chiamarsi sin dai primi momenti - passarono da essere meno di dieci a essere oltre 100, fino ad arrivare all'incredibile cifra di questi ultimi anni che ha visto sorpassare di diverse unità la soglia dei mille produttori diffusi su tutto lo stivale. Ma questo non basta a raccontare quanto ciò che è avvenuto in Italia sia stato significativo e piuttosto unico.
Nel 2016, infatti, l’Italia è diventata il primo Paese al mondo ad approvare una legge che definisce i birrifici e le birre artigianali. Si tratta di una norma tanto semplice quanto utile per il consumatore che stabilisce tre paletti senza i quali un birrificio non può dirsi artigianale, eccoli:
Questa legge, per quanto importante, non basta a delineare le caratteristiche della birra artigianale italiana che ha bisogno di ulteriori passi avanti, soprattutto nella costruzione di una filiera locale e di una riconoscibilità sul mercato (anche internazionale) sempre più evidente.
La maggior parte delle birre artigianali nostrane, infatti, sono prodotte con materie prime provenienti da nazioni con una lunga tradizione birraria alle spalle (Germania, Regno Unito, Stati Uniti). Si tratta di una scelta che fino a qualche anno fa appariva inevitabile ma che negli ultimi anni, invece, viene costantemente messa in discussione. Capita con sempre maggior frequenza, infatti, che birrifici artigianali italiani avviino coltivazioni di luppolo o di orzo da birra (spesso fatto maltare all’estero, sebbene anche su questo aspetto si stiano facendo grandi passi avanti nel nostro Paese) o scelgano di affidarsi a materie prime nazionali.
Non si tratta tanto di una scelta di facile nazionalismo e nemmeno di un’operazione di comunicazione. È, al contrario, una sfida che ha due principali obiettivi: generare benefici e una filiera a monte del prodotto, dopo che per quasi trent’anni si è andata delineando una ricaduta positiva del settore soprattutto a valle, fatta di aperture di locali specializzati, società di distribuzione ecc.. In seconda battuta, rendere pienamente significativa la formula birra artigianale italiana, facendo sì che quest’ultimo aggettivo non significhi più solo, “prodotta in Italia”, ma “prodotta in Italia con materie prime italiane”, una caratteristica che soprattutto sul mercato straniero potrebbe essere fortemente apprezzata.
Accanto a questo avanzamento sul fronte produttivo va delineandosi sempre meglio la definizione di birra italiana a livello stilistico. Ora che i produttori sono diverse centinaia sparsi in tutto il Paese emerge in modo sempre più nitido che l’approccio italiano alla birra ha nell’eleganza e nell’equilibrio le sue peculiarità. Inoltre - ma questa è a dire il vero una delle caratteristiche del movimento italiano sin dalle sue origini - i birrifici italiani hanno trovato il modo di utilizzare la straordinaria biodiversità a loro disposizione caratterizzando le birre con cereali, agrumi, frutti, erbe autoctone.
Una strada che ha prodotto enorme visibilità, anche a livello internazionale, nel momento in cui l’ingrediente scelto dai birrai per impreziosire i propri prodotti è stato l’uva, che dei frutti del nostro Paese è senza dubbio quello con la storia e la cultura più importanti. Le Italian grape ale, infatti, sono riconosciute ovunque nel mondo come lo stile italiano per eccellenza e certamente quello che meglio è in grado di raccontare i diversi territori nei quali i birrifici operano.
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