Sempre più spesso nel settore della birra artigianale si sente parlare di filiera agricola, un concetto che è diventato argomento d’attualità solo in tempi recenti. Nonostante infatti la nostra bevanda sia un prodotto legato strettamente alla terra, spesso questo suo aspetto fondamentale è stato trascurato. Innanzitutto per motivi culturali, poiché prima della rivoluzione internazionale della birra artigianale non c’è mai stato interesse a spiegare quali materie prime si utilizzano e in che modo. Secondo, poi, perché l’Italia vanta una tradizione brassicola quasi inesistente e ciò non ha mai permesso un serio sviluppo di una filiera agricola a riguardo.
Ancora oggi la stragrande maggioranza dei birrifici italiani acquista le materie prime all’estero, rivolgendosi a quelle nazioni che storicamente rappresentano i maggiori fornitori in termini di orzo maltato, luppolo e lievito. Tuttavia negli ultimi anni sono stati fatti piccoli ma fondamentali passi per scardinare questo meccanismo e cercare di sviluppare una via totalmente italiana alla produzione brassicola.
D’altro canto in molti parti del mondo la birra è da sempre legata alle materie prime disponibili nelle sue zone di origine. Ma c’è di più: in alcuni casi è la qualità degli ingredienti di una precisa area geografica ad avere stabilito le caratteristiche di determinati stili birrari. Uno degli esempi più celebri è rappresentato dalla Pilsner Urquell, la prima Pils della storia, valorizzata dall’acqua della città di Plzen e dalle peculiarità del luppolo boemo Saaz. In tempi recenti tutto il filone delle birre di stampo statunitense, che di fatto hanno ottenuto successo in tutto il mondo, ha sfruttato le grandi caratteristiche aromatiche dei luppoli coltivati in America, come il Cascade, il Citra e il Simcoe, solo per citarne alcuni.
Uno dei maggiori impulsi a una presa di coscienza italiana in tal senso risale al 2010, quando il Decreto Ministeriale 212/2010 stabilì che la birra poteva essere considerata un prodotto agricolo, istituendo di fatto la definizione di “birrificio agricolo”. Secondo il decreto, potevano assurgere a questo status quelle aziende capaci di impiegare nelle loro birre almeno il 51% di orzo coltivato in proprio, accedendo così a una serie di vantaggi fiscali ed economici.
Il provvedimento presentava alcune importanti zone d’ombra e nella pratica dimostrò parecchi limiti, ma ebbe il merito di alimentare il dibattito intorno alla filiera agricola in ambito birrario, rendendo improvvisamente comune un concetto che fino a pochi anni prima sembrava irraggiungibile.
Se infatti la coltivazione di orzo per la birra non è un’attività storicamente assente in Italia, diverso è il discorso per il luppolo: effettivamente fino a qualche anno fa in Italia non esistevano reali piantagioni, ma solo piccoli appezzamenti a scopo sperimentale e privi di velleità commerciali.
A lungo è stata sostenuta la teoria che l’Italia non presentasse un clima adatto al luppolo, salvo poi accorgersi che nel resto del mondo nuove varietà di successo venivano sviluppate a tutte le latitudini. Anche in questo caso dunque c’era alla base un pregiudizio culturale, che per fortuna è stato superato negli ultimi anni con il diffondersi nel nostro paese di diverse coltivazioni. Il fenomeno è ancora piuttosto limitato, ma sta crescendo a ritmo sostenuto e permetterà in futuro di accedere con sempre maggiore facilità a luppolo italiano, che nel frattempo raggiungerà altri traguardi sia a livello quantitativo che qualitativo.
Sebbene quindi il dibattito italiano sulla filiera agricola in ambito brassicolo si sia sviluppato negli ultimi dieci anni, già da prima erano partiti alcuni progetti visionari in merito. Uno dei più importanti è senza dubbio quello del birrificio Baladin, che portò l’azienda piemontese a lanciare nel settembre del 2011 – dopo anni di analisi, studi e sperimentazioni – la Nazionale, la prima birra 100% italiana. La prima Nazionale fu realizzata con malto d’orzo prodotto a Melfi, luppolo coltivato a Cussanio (Cuneo) (piantato nel 2008) e lievito coltivato in Italia, oltre ovviamente ad acqua locale (quella della Alpi Marittime). La Nazionale ha rappresentato per Teo Musso non solo la realizzazione di uno sogno, ma anche il primo tassello concreto verso lo sviluppo di un’idea di italianità a 360° associata alla birra.
Come dimostra la storia della bevanda, infatti, il fine ultimo dello sviluppo di una filiera agricola è di codificare un carattere nazionale della bevanda, sfruttando le peculiarità delle materie prime coltivate nel nostro paese. Si tratta di un processo lungo e ambizioso, ma che sta trovando sempre più interlocutori interessati a sostenerlo e supportarlo. Un importante contributo arriverà sicuramente dal Consorzio Birra Italiana, un progetto nato a giugno 2019 e che unisce diversi attori della filiera per lo sviluppo di una forte identità della birra italiana attraverso materie prime nazionali.
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