Bevo italiano. Cosa propongono i produttori di birra artigianale in Italia?

Cosa significa “bere italiano”? Se per quanto riguarda il vino la risposta sembra immediata, la questione è decisamente più complessa quando si parla di birra.

Una tradizione giovane

La tradizione produttiva artigianale del nostro Paese, infatti, per quanto ormai universalmente affermata e stimata, a differenza di Belgio, Regno Unito e Germania non può contare su una storia plurisecolare poiché ha origine solo intorno alla metà degli anni Novanta.

Se questa mancanza di vincoli culturali ha permesso ai birrai una grande libertà creativa, essa d’altra parte ha comportato la necessità di dipendere dall’estero per gli approvvigionamenti di materie prime, delle cui manifatture (sia a livello agricolo che in termini di trasformazione) l’Italia storicamente mancava e in gran parte manca tuttora.

Da questa inadeguatezza è risultato che negli anni, seguendo una direzione contraria a quella percorsa dal resto delle produzioni gastronomiche di livello, il concetto stesso di eccellenza applicato alla birra sia stato fatto divergere dalla natura essenzialmente agricola della bevanda.

Cosa significa birra di qualità in Italia?

L’idea generalizzata di “birra di qualità” in Italia è stata resa avulsa dai valori di sostenibilità, significato socio-culturale, ecologia che tanto connotano la visione contemporanea della gastronomia; per essere considerata esclusivamente in base alle prestazioni sensoriali del prodotto finito.

Ciò è stato dovuto, in larga parte, al fatto che il comparto agricolo da cui dipende la coltivazione delle materie prime birrarie si sia trovato impreparato a fronteggiare l’improvviso boom della richiesta di malti e luppoli, dovuto all’incremento esponenziale del numero di birrifici negli ultimi 15 anni.

Il crescente divario tra il grande numero di birrifici artigianali e le limitate capacità del settore agricolo delle materie prime destinate alla produzione di birra, che sono variate di pochissimo, presenta numeri significativi: si registrano oggi in Italia più di 1000 birrifici artigianali e beer firm, mentre le malterie possono letteralmente contarsi sulle dita di una mano; i coltivatori di cereali si rivelano spesso scarsamente interessati all’impianto di orzo distico; i primi luppoli commerciali italiani sono comparsi sul mercato, per la prima volta, appena due anni fa.

Un nodo centrale è quello delle malterie: anche i birrifici agricoli che coltivano il proprio orzo, a meno che non siano dotati di costosi macchinari per la maltazione in proprio, hanno difficoltà a conferire il prodotto per la trasformazione ad operatori terzi. Questo perché le quantità di grani richieste in alcuni casi per avviare il processo sono ingenti e spesso i trasformatori non sono in grado di assicurare che il malto che viene restituito ai produttori sia realmente quello realizzato partendo dai loro cereali.

Simili difficoltà si riscontrano riguardo al luppolo: i pochi coltivatori italiani fanno leva su impianti molto giovani quando ancora non del tutto sperimentali, la selezione e l’adattamento delle varietà internazionali al territorio risultano in molti casi ancora non compiuti, e le tecnologie di trasformazione (pellettizzatrici, essiccatori) risultano ancora dispendiose e di difficile accesso a fronte dei ridotti volumi di prodotto.

Quindi birra italiana = ingredienti esteri? Non sempre!

Ma dobbiamo quindi rassegnarci al fatto che le migliori birre italiane siano preparate con ingredienti provenienti da altri Paesi?

Se è senz’altro vero che si può produrre ottima birra con malto d’orzo tedesco e luppoli americani, non è infatti fuorviante definire questa birra come “italiana”, nell’era in cui l’attenzione all’appartenenza territoriale e alla tipicità dei prodotti alimentari è massima?

Consumiamo manzo piemontese e grano siciliano, olio pugliese e pecorino toscano; cerchiamo prodotti da agricoltura sostenibile, biologica e biodinamica, ci fidiamo di certificazioni DOP e IGP perché raccontano storie di paesaggi, delle persone che li abitano e delle loro culture.

In un quadro altamente competitivo che vede l’industria insidiare gli spazi di potenziale espansione del segmento premium saturando il mercato con prodotti crafty (e cioè che scimmiottano l’immagine delle produzioni autenticamente artigianali, ma non ne pareggiano la sostanza), crediamo che l’unico modo per fare davvero la differenza sia sviluppare il concetto di filiera agricola nazionale.

Solo curando la produzione della birra dalla terra al bicchiere questa potrà essere al 100% italiana, rafforzando di fatto anche il concetto di artigianale; un prodotto la cui qualità venga intesa in maniera olistica, partendo da ingredienti di base coltivati in proprio con filosofia etica e saper fare, e che rispecchi a pieno un terroir e con le sue specificità morfologiche, ambientali, culturali.

Che il prodotto sia buono sarà necessario ma non potrà più bastare, quindi: il futuro è restituire alla nostra amata bevanda la sua dimensione di frutto della terra curato dal produttore in ogni fase della gestazione.

A supporto delle birre artigianali Made in Italy, nel 2019 è nato il Consorzio Birra Italiana - partecipato da produttori di birra, agricoltori e Coldiretti - che, attraverso la tutela e la crescita della filiera agricola italiana riconducibile alla produzione brassicola, ha il fine di rafforzare l’identità italiana autentica.

 

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